Noi filosofi diffidiamo sempre da chi vuole imporci la Verità. Infondo, dopo anni trascorsi a studiare pensieri e concezioni tanto eterogenei, non crediamo più che la Verità esista davvero. Abbiamo imparato che esistono le verità, che la realtà è qualcosa di cangiante e volubile; abbiamo imparato che il mondo non è solo guardato, ma interpretato; abbiamo imparato che ogni storia ha più versioni, e che ogni evento sembra diverso a seconda della prospettiva, del tempo, dell’individuo che l’ha vissuto o che lo narra.
Molti anni fa, in una piccola biblioteca impolverata, scovai per puro caso un libro di Pavese. La copertina era ingiallita e scialba, ma il titolo mi piacque, e il libro venne a casa con me. Adesso ne possiedo una copia tutta mia, con la copertina disegnata e le pagine consumate. Dialoghi con Leucò dichiara l’intestazione, e all’interno Pavese ci mostra il mito antico attraverso i suoi occhi. Ho scelto questo libro, in primo luogo per dimostrare che la filosofia si annida dappertutto, basta scorgerla: nelle piccole cose, fra fogli sgualciti, in una giornata piena di sole o di sgomento. Che la filosofia non è altro che vedere sotto una nuova luce ciò che abbiamo sempre visto. Che la filosofia non è fatta di passato, di teorie ammuffite e riciclate, ma di rivoluzioni, scoperte, reinterpretazioni. Che la filosofia è viva, ma solo finché si adegua alle esigenze del tempo e si cala nel mondo.
Tutto questo mi porta alla seconda ragione per cui ho scelto Dialoghi con Leucò: perché voglio mostrarvi come uno stesso racconto si presti a diverse interpretazioni. Nel mio articolo precedente ho spiegato come ognuno di noi sia custode di un proprio universo interiore che non può in alcun modo assomigliare a quello di un altro. Ed è evidente come quel mondo personale, costruito sulle proprie esperienze, convinzioni, conoscenze, filtri anche la nostra visione del mondo esterno, quello reale, quello fuori di noi. A pensarci bene la reinterpretazione non è altro che questo: vedere e raccontare le cose attraverso le lenti della nostra cultura, delle nostre credenze, delle nostre passioni. E così quelle cose diventano nuove, diventano altro.
Ma torniamo al nostro argomento principale, e a quel libro che mi è tanto caro. Nei Dialoghi con Leucò, Pavese, si appropria di ventisette notissimi episodi del mito greco, e li rielabora, rendendoli attuali. E sapete come ci riesce? Egli comprende che quelle leggende dalle sembianze anacronistiche, in realtà mantengono intatti elementi radicati profondamente in ogni epoca. Pavese si concentra sulla funzione forse più vitale del mito greco, che è quella di trasfigurare le angosce, i timori, le tensioni, i disagi, propri di ogni uomo. Perché la morte, la paura dell’ignoto, le domande su Dio, sull’esistenza del fato e del libero arbitrio, sono interrogativi che esistono da sempre e che appartengono intimamente alla coscienza di ognuno. Pavese non ha il merito di dare un nuovo scopo al mito rispetto ai suoi predecessori; non gli attribuisce una nuova funzione, ma gli offre nuovi filtri. E così, quelle leggende antiche, pur conservando la loro missione, acquistano un diverso aspetto.
Se conoscete e avete letto il mito classico, di fronte a Dialoghi con Leucò, in un primo momento vi sentirete disorientati. Essenzialmente perché Pavese non racconta una storia nella sua interezza, dal principio alla conclusione. Sarebbe logico, ma prevedibile, già visto. Egli allora si concentra su una singola scena, si ferma su un istante preciso, e lo mette a fuoco: e così quell’unico momento diventa centrale, diventa esso stesso la storia. Ogni contesto svanisce: restano solo i protagonisti, messi completamente a nudo in una scena vuota, dove il tempo e il luogo sono irrilevanti. È questa la grande novità di Pavese: la sua rielaborazione consiste nel guardare il mito dall’interno. Non è essenziale cosa sia accaduto davvero o dove: conta come quell’episodio sia stato vissuto dal protagonista della storia. Contano le sue impressioni, gli stati d’animo, le riflessioni. Pavese stesso finisce per divenire un ascoltatore paziente e silenzioso di fronte ai racconti dei suoi personaggi. E l’effetto è ottenuto grazie alla forma narrativa scelta, ovvero il dialogo: un dialogo estremamente filosofico, intenso, profondo; fatto di lunghi ascolti e toccanti confessioni; un dialogo che ricorda quello socratico, quello che ha lo scopo di indagare, di far riflettere, di rivelare all’interlocutore se stesso.
Credetemi, non è stato facile per me, fra questi racconti, sceglierne uno soltanto. Alla fine la mia preferenza è andata a Orfeo ed Euridice, perché ritengo che sia uno dei miti più conosciuti e forse amati. Ma anche perché è una delle storie più rivisitate nel tempo, ed è interessante notare l’analisi che ne fa Pavese, la sua reinterpretazione in chiave moderna. Prima però un breve inciso. La leggenda di Orfeo ed Euridice, un po’ come tutti i miti greci, ha origini incerte e remote, e già in antichità ne esistevano molte varianti, tramandate per lo più oralmente. Poi arrivarono i primi grandi autori: Platone, Virgilio, Ovidio e molti altri. Ognuno, a suo modo, trascrisse la storia dell’amore infelice di Orfeo per la sua sposa. Ma, a guardar bene, i loro racconti non sono così diversi nella sostanza. Diverso spesso è l’epilogo, ovvero la sorte di Orfeo dopo l’uscita dagli inferi: qualcuno lo immagina solitario e affranto sul monte Ròdope, altri ne raccontano la morte violenta e sanguinosa. Ma la verità è che in questa storia, la conclusione non conta poi molto. Il momento cruciale, quello su cui fa perno l’intero mito non coincide con il finale, ma è precedente, ed è l’istante in cui Orfeo disobbedisce agli dei.
È su questo punto che dobbiamo concentrarci per capire come la concezione di Pavese si discosti radicalmente da quella classica. Per realizzare un confronto utilizzerò l’Orfeo di Ovidio, quello narrato nelle Metamorfosi. Qui il nostro protagonista, celebre cantore greco, è perdutamente innamorato della sua giovane e bellissima sposa, Euridice. Ma l’idillio fra i due è presto interrotto dalla tragica e prematura morte di quest’ultima, morsa al tallone da un serpente velenoso. Orfeo, disperato per la perdita della consorte, tenta l’impossibile. Si addentra negli inferi, e li percorre fino a giungere al cospetto di Ade e Proserpina, con l’unico scopo di convincerli a restituirgli l’amata. E ci riesce. Grazie alle sue indiscusse doti di musico e poeta, fa commuovere persino le Furie e persuade i sovrani dell’Ade a fargli riavere indietro la sua Euridice. Ma c’è una condizione da rispettare: la fanciulla potrà tornare nel regno dei vivi, a patto che Orfeo non si volti mai a guardarla, non finché saranno usciti dalle tenebre infernali. Così, il mitico cantore ripercorre al contrario quei sentieri bui e scoscesi avvolti dalla nebbia, seguito con passo incerto dalla sua sposa. Ed i due amanti sono quasi giunti in superficie, quando Orfeo, in preda all’ansia e preoccupato che la moglie non lo segua più, si volta, infrangendo il giuramento fatto agli dei: ha appena il tempo di vedere il volto dell’amata, le sue braccia protese, la sente a malapena pronunciare con voce sommessa un ultimo addio. Poi Euridice scompare, come un’ombra, stavolta per sempre, lasciando Orfeo solo, con il suo dolore e con la sua colpa.
In questa versione classica del mito, se è vero che Orfeo viene esaltato per le sue doti poetiche, per l’audacia e per il profondo amore nei confronti di Euridice, è anche vero che si intravedono chiaramente le sue lacune. Perché dal racconto appena considerato, si nota immediatamente che Orfeo, nel momento più importante si rivela incerto, vulnerabile e timoroso. E questo lo porta a commettere un errore; poco importa che sia il troppo amore a spingerlo a voltarsi. Il risultato è disastroso e irreparabile. Ovidio, fa perdere al cantore la sua Euridice per una banale sventatezza, per superficialità, per paura; egli agisce mosso dall’istinto, senza riflettere, e alla fine su di esso incombe l’inesorabile colpa di non aver salvato l’amata.
Con Pavese la prospettiva cambia drasticamente, perché egli si concentra sul protagonista e non più sulla scena. Il momento in cui Orfeo si volge indietro è presente allo stesso modo nei Dialoghi con Leucò. È un dato, un fatto oggettivo: Orfeo si volta. Ma quello che a Pavese importa, e quello che fa di questa sua reinterpretazione una novità, è la ragione per cui egli si volta, non il gesto in sé. A Pavese interessano i moventi, non gli esiti. Per questo fa parlare il protagonista stesso: per darci modo di valutare la vicenda dal suo personale punto di vista e non da quello di un osservatore esterno. Il cantore finalmente acquista voce: si racconta, si spiega, si confessa, rispondendo alle domande zelanti di una baccante giunta fin lì per conoscere la sua vicenda.
La narrazione di Orfeo parte proprio dal momento decisivo. Egli ricorda il gelo che lo aveva avvolto in quel regno sotterraneo; descrive il suono attutito dei passi, appena percettibili alle sue spalle; quello spiraglio di luce che annuncia il mondo dei vivi. E rievoca i suoi sentimenti, quel gesto fatale. Ma a questo punto dell’esposizione, il lettore abituato al mito classico, ha un sussulto. Perché Orfeo ci svela che il suo voltarsi è stato intenzionale, la sua una scelta deliberata. Infatti, come potrebbe commettere un errore tanto grossolano, un uomo che è riuscito ad attraversare gli inferi, a persuadere gli stessi dei? No, Orfeo confessa di aver deciso di girarsi, consapevole che così Euridice non sarebbe mai più tornata sulla Terra. E ce ne spiega il motivo. Ci racconta di quanto quel viaggio per recuperare l’amata l’abbia cambiato: il freddo infernale fin dentro le ossa, le voci strazianti dei dannati, lo portano a riflettere per la prima volta davvero su cosa significhi la morte e su cosa significhi morire. È allora che si volta. Perché non può permettere che la donna che ha tanto amato provi due volte quella stessa agonia, quello sgomento; non può accettare che Euridice muoia ancora.
Ma l’esposizione di Orfeo non si esaurisce qui. Anzi, cambia tenore, e il lettore ha appena il tempo di commuoversi, di metabolizzare l’accaduto, che le considerazioni diventano più complesse. A questo punto si fa avanti la baccante che, incredula, pone la questione determinante: come si può attraversare tutto l’inferno per poi rinunciare all’ultimo passo? Come si può amare così ardentemente qualcuno e lasciarlo andare per sempre? E la risposta che riceve è emblematica: «Non si ama chi è morto», dichiara il cantore. Orfeo spiega di essere disceso nell’Ade allo scopo di recuperare l’amata, ma che una volta giunto a destinazione realizza che in realtà non è più Euridice quella che stava cercando, ma se stesso.
Euridice, una volta morta, diventa altro. Se anche Orfeo, le avesse restituito il mondo e la vita, ella non sarebbe comunque più stata la donna di prima. Non dopo quel trapasso, non dopo quel viaggio, quelle visioni, quella realtà. Orfeo l’aveva amata profondamente, e con lei aveva amato quel periodo della sua esistenza, quella fase in cui la morte era solo un pensiero indistinto, un’ombra. Quando il cantore scende nell’Ade, comprende finalmente che la sua disperazione non è più tanto per l’amata, quanto per sé: la sua afflizione è per la perdita di quell’Orfeo che conosceva l’amore e non sapeva ancora nulla della morte. Ma quell’uomo, ancora innocente, ancora immaturo, Euridice l’aveva preso con sé, morendo. E quando Orfeo si ritrova vicino all’uscita e alla luce, comprende che ormai quel lato di sé è solo un ricordo: non è la realtà, è uno spettro. E si volta. Come per guardare un’ultima volta il passato, per dirgli addio, per andare avanti con una nuova coscienza, una diversa prospettiva delle cose. Orfeo ha concluso la sua esposizione, e il lettore, un po’ smarrito e un po’ insoddisfatto, resta solo, con più quesiti che risposte.
Siamo al momento delle conclusioni. Come abbiamo visto, il mito greco ha la peculiarità di descrivere una scena, un episodio, una circostanza, senza però approfondire i moventi più intimi dei personaggi coinvolti. E questo non è necessariamente un male perché fa sì che ognuno di noi metta in una leggenda un po’ di sé, del suo mondo, delle sue opinioni; fa sì che ognuno, a suo modo, ne tragga un suo senso, un insegnamento. Il mito antico presenta degli spazi che il lettore può riempire a seconda della sua prospettiva o del suo stato d’animo. E Pavese lo fa: prende una leggenda e riempie quei vuoti, elaborando le cose con i suoi occhi. Con lui, il mito cambia aspetto: si arricchisce di motivazioni e chiarimenti, e mette in primo piano i personaggi. Il lettore non è più così protagonista, non deve riempire lacune con la sua interpretazione, ma diventa un osservatore che riflette su quanto il protagonista espone e dichiara. È questa la novità di Pavese, ed è anche una scelta rischiosa perché suscettibile di critiche da chi il mondo lo interpreta in modo differente.
Personalmente posso dirvi che apprezzo moltissimo la sensibilità con cui Pavese filtra la realtà e con cui esamina le ragioni più recondite dell’animo umano. La sua interpretazione di Orfeo ed Euridice, può scoprirvi discordi o favorevoli, ma in ogni caso schierati, partecipi, perché vi ritroverete a riflettere seriamente sulla vostra personale concezione della morte e dell’amore. Infondo, noi filosofi, è di questo che abbiamo bisogno: di interrogarci continuamente, di capire, di approfondire, di esaminare il mondo, di trovare noi stessi anche attraverso gli altri, o fra le parole imprigionate in un libro.
Che aspettate? Sfogliate una, due, mille pagine e poi reinterpretatele. E fatelo anche nella vita: siate ingegnosi, siate critici, siate dubbiosi, siate voi. Fidatevi dei vostri sensi e del vostro giudizio, imparate a osservare le cose, coloratele con i vostri filtri, coscienti che ci sono altri mille punti di vista da cui guardarle e che nessuno è giusto o sbagliato. Proteggete le vostre idee e la vostra versione del mondo, amatela, credeteci. E se non andrete bene a qualcuno, spiegategli che è solo una sua interpretazione di voi. E magari nemmeno così buona.
Bella e interessante l’interpretazione di Pavese, che in effetti osservando le cose da un punto di vista inedito induce a riflettere più a fondo sul mito. Di Pavese ho letto e apprezzato altro, ma di sicuro non mi farò scappare questo testo. Bella anche la tua analisi, molto chiara e scorrevole nell’esposizione.
Grazie Alessandra. Ti confesso che per quanto i tuoi apprezzamenti siano davvero graditi, mi inorgoglisce molto di più sapere che ti ho consigliato un’ottima lettura. Fidati, merita davvero.
Magnifico. Assolutamente magnifico. Tutto cambia, se siamo noi stessi afflitti dallo scorrere del tempo. Anche restando immobili. Figuriamoci dopo un trip negli inferi.
Di Pavese ho sempre amato la brillantissima ironia e la smisurata coerenza. Per nulla banale. Così come la tua scrittura, meritevole di lode. Molto brava! Oh, e che sia chiaro, non voglio sembrare il maestrino. Anzi. Odio chi si pompa. Non so perché, io dico sempre le cose che penso come le penso, ma vengono sempre condite con l’interpretazione personale. Il più delle volte socioindotta. Boh. Io sono io. Se non piaccio, non ne faccio dramma.
Grazie davvero per aver speso un po’ del tuo tempo per leggere i miei articoli e soprattutto per dire la tua. Mi piacciono le critiche, di qualunque natura siano, perché in ogni caso mi aiutano a migliorarmi o a restare me stessa. 😊 sono contenta che tu abbia apprezzato e anche che tu non sia sempre in accordo con quello che scrivo: significa che comunque ti ho fatto riflettere, e questo mi è più che sufficiente. Sarò lieta di scambiare altre opinioni in futuro. Concludo rassicurandoti sulla faccenda del maestrino: non lo sembri affatto, tranquillo. Ma tu lascia che la gente interpreti liberamente, tanto è inevitabile. ☺️buona giornata
Leggere cose stimolanti è sicuramente tra i migliori modi di spendere il proprio tempo.
Apprezzo il fatto che ti si possa parlare liberamente, senza che tu subisca quella fastidiosa impressione di acidità che, sinceramente, non mi appartiene. Mi succede (quasi) sempre: dico ciò che penso, così come lo penso, e chi legge o ascolta pensa che ci sia qualcosa sotto. Non è necessariamente così. Se potessi scegliere un libro di cui poter imporre la lettura nelle scuole, sceglierei Lavelle.
In qualsiasi modo ti comporti, sarai sempre suscettibile di interpretazioni altrui. Spesso del tutto erronee. Quindi non resta che essere se stessi. 😊
Non siamo oggettivi. E neanche siamo Francis Bacon. Quindi si, hai pienamente ragione tu. 🙂