Di tanto in tanto vorrei spendere un po’ del mio tempo (e naturalmente del vostro) per approfondire alcuni concetti ed espressioni che nella quotidianità vengono sempre più spesso utilizzati, se non in termini negativi, sicuramente in modo scorretto. Perché va detto. Noi filosofi facciamo un gran caso alle parole. Le osserviamo mentre escono dalla bocca di chi le pronuncia quasi fossero materiche, le analizziamo, le mettiamo in fila con precisione chirurgica, stiamo attenti a come le spostiamo, e storciamo il naso se qualcuno non presta la nostra stessa attenzione a etimologia e contesto. Insomma, per noi le parole hanno davvero un gran peso. Per cui potete immaginare quello che provo ogni volta che qualcuno, così, alla leggera, prende termini come giudizio, scettico e amore platonico e li infila nel resoconto della sua giornata. Sia chiaro, non pretendo che tutti prestino la mia cura nel formulare un discorso o nello scegliere i vocaboli più opportuni: un mondo di filosofi sarebbe comunque un incubo, credetemi. Ritengo solo che sia importante a volte ponderare quello che si dice, soprattutto in una conversazione, in modo che la comunicazione con l’altro risulti efficace. Pensateci: molti malintesi, disaccordi, discussioni, nascono perché le persone utilizzano lo stesso vocabolo ma intendono concetti diversi. Quando pronuncio una parola, ricordo sempre che, collegato ad essa, c’è il mio intero universo interiore, fondato su conoscenze, immagini, idee e convinzioni personali. Si tratta del mio mondo, che non può in alcun modo appartenere a un altro. E in una conversazione, di qualsiasi natura sia, serve che io, in primo luogo, spieghi cosa intendo quando utilizzo quel preciso termine. Ci sono persone che vorrebbero esprimere le stesse idee, ma che lo fanno con parole completamente diverse. E non si capiscono. Il linguaggio dovrebbe avvicinarci agli altri, ma come tutti gli strumenti va utilizzato nel modo più corretto ed efficiente possibile. Altrimenti è inutile. Altrimenti diventa una barriera.
Sì, lo so. Mi sono dilungata molto. Ma l’ho fatto perché si comprenda che la mia apologia del giudizio si basa soprattutto su un fattore etimologico e linguistico piuttosto che etico e concettuale. Questi ultimi due aspetti sono essenziali, indubbiamente, ma a mio parere arrivano dopo. Perché prima di esprimerci su qualcosa, dobbiamo in primo luogo capire di cosa si sta parlando. No?
Ma veniamo al tema centrale, prima che vi domandiate se non abbia sbagliato a scrivere il titolo di questo articolo. Nel linguaggio comune essere giudicati o giudicare sono espressioni pronunciate in termini poco lusinghieri. Si viene ammoniti con frasi del tipo «Non giudicare gli altri se non vuoi essere giudicato», dal chiaro sapore evangelico. Insomma, il giudizio è considerato negativo. Ma perché? La mia difesa, come ho già ampiamente spiegato, parte dalla considerazione che spesso le parole vengono adoperate in modo impreciso. Ad esempio, se una persona mi chiedesse se sono scettica, teoricamente dovrei informarmi su quanto essa conosca Pirrone o lo scetticismo in generale (anche se so perfettamente che in questo modo la farei scappare il più lontano possibile e sarei catalogata come una pazza furiosa). Allo stesso modo, se una persona mi domandasse se sono contraria o favorevole ai giudizi o a chi giudica, io le chiederei che cosa intenda con il termine giudizio. Ecco, di fronte alla mia domanda immagino che i più resterebbero interdetti per qualche secondo e che poi, riflettendoci, mi risponderebbero che giudicare una persona significa additarla per un suo comportamento o modo di essere, senza conoscere veramente la sua condizione.
Oppure che significa parlarne con tono malevolo, o attribuirle una certa caratteristica senza che ci sia un fondamento reale e profondo. Ci sono altre mille possibili risposte che vi risparmio, ma la sostanza è che giudicare qualcuno o qualcosa, nell’immaginario collettivo è considerato un comportamento esecrabile o, nella migliore delle ipotesi, superficiale. Bene. Non ho intenzione di soffermarmi sull’aspetto etico dei comportamenti descritti qui sopra. Ma intendo puntualizzare che quei comportamenti non appartengono affatto alla sfera del giudizio. Allora cosa significa giudizio? Proviamo a dare una risposta concentrandoci esclusivamente sulla parola e il suo significato originario.
Aristotele fu il primo filosofo a coniare la nozione di giudizio che è rimasta più longeva nel tempo. Per costui il giudizio non è altro che l’attività dell’intelletto, che pone in relazione un soggetto con un predicato. Un esempio? «Socrate è un uomo». Il giudizio in questo caso appartiene all’ordine della logica. Non voglio indottrinarvi, ma dirvi che anche in senso più generico, il giudizio qui non è altro che la nostra capacità di affermare o negare qualcosa. Insomma, semplificando ulteriormente, trattasi di formulare una proposizione, ovvero una frase costituita da un soggetto, una copula e una qualità che lo caratterizzi. Da quest’ottica si comprende non solo che il giudizio non è qualcosa di estremamente sconveniente, ma che è anche un atto naturale e inevitabile. Il solo modo per sottrarsi dall’esprimerne uno sarebbe quello di non utilizzare affatto l’intelletto, ma credo sia una soluzione poco assennata (per non dire irrealizzabile), per cui possiamo concludere che in questa accezione il giudizio non è un atto meritevole di biasimo e acrimonia. Andando a esaminare invece un’epoca e una cultura relativamente più vicine a noi, scoviamo l’origine della parola incriminata: sono infatti i nostri antenati latini ad averci fatto dono del termine stesso giudizio. Nella Roma antica esso mette un po’ da parte il suo senso logico e si appropria di un valore soprattutto giuridico, che infondo conserviamo ancora oggi. Infatti, chi giudica? Colui che emette un giudizio e quindi una sentenza. Un giudice appunto. O una giuria. Ma la differenza rispetto al consueto significato resta abissale. Infatti si suppone che un giudice emetta il suo verdetto dopo aver raccolto una serie di testimonianze, di prove ed altri elementi da entrambe le parti in causa, e che di conseguenza le sue decisioni saranno ponderate e fondate. Quindi, se dessimo nella nostra quotidianità questo medesimo valore al termine giudicare, non lo considereremmo poi un atteggiamento così riprovevole. Anzi. Credo che se qualcuno raccogliesse informazioni e dati prima di esprimersi su un argomento o una persona, non solo verrebbe lodato, ma ci si risparmierebbero molti equivoci, leggerezze e inconvenienti. Quindi, anche in questa seconda accezione, chi riterrebbe mai negativo l’atto di giudicare?
La verità è che il giudizio ha cominciato ad avere una valenza squisitamente morale con l’avvento del Cristianesimo; e una volta impregnatosi di religione, ha fatalmente assunto una venatura negativa. Il termine infatti, ricorre spesso all’interno dei Vangeli, dove Gesù spiega ai suoi discepoli quanto sia inopportuno e presuntuoso giudicare i propri simili. Ricorderete tutti la celebre parabola della pagliuzza e della trave, utilizzata per invitare gli altri a non concentrarsi sugli errori o i difetti del prossimo ma a focalizzarsi sui propri; a non giudicare per non essere giudicati. Giustissimo, mi direte. E io non posso che approvare da un punto di vista etico questo concetto, e tesserne le lodi. Ma ricordandomi che devo essere scrupolosa nella mia missione e che vi ho seccato a lungo con la storia dell’importanza dei vocaboli, non mi resta che precisare (sentendomi anche un po’ in colpa) che Gesù utilizza la parola giudizio dandogli un significato diverso da quello originario. E il significato che gli dà, non curandosi certo di Aristotele o dell’etimologia, è permeato in profondità nella coscienza e nella cultura moderne. Questo brevissimo excursus evangelico, è fondamentale innanzitutto per mostrare come evolvono i concetti, pur mantenendo la stessa terminologia. E in secondo luogo per sottolineare il momento esatto in cui la nostra parola ha cominciato ad assumere tinte negative che manteniamo ancora oggi. Ora sta a voi decidere. Non solo se condannare o assolvere il giudizio. Ma sopratutto se intendete concentrarvi sul significato delle parole o sul loro senso, consapevoli che il significato originario è uno, mentre i sensi che possono rivestire sono molteplici, e variano a seconda del tempo, del luogo, delle convinzioni e del contesto. E consapevoli del fatto che l’interlocutore non può in alcun modo conoscere a priori il senso che state assegnando a quella parola.
Mi sono soffermata a lungo sull’argomento non soltanto perché sono stanca di sentir bistrattare il povero giudizio. Ma anche per farvi riflettere di più sul valore, sul peso e sulla storia che ha ogni vocabolo che pronunciate o scrivete.
Se qualcuno vi dirà che le parole non contano, non credetegli. Contano eccome. La comunicazione è essenziale, e una buona comunicazione e alla base delle convivenze più proficue e longeve.
E ora ve lo confesso. Io giudico. E voi?
Ah, meraviglia questo post. Letto avidamente anche questo.
Faccio un discorso generico, pur conoscendone nello specifico le determinate fondamentali.
Chi è che non giudica? C’è una lacuna nel tuo discorso, a mio avviso. I due (o più!) interlocutori dovrebbero essere allo stesso livello, o, al minimo, essere in grado di comprendere e saper usare correttamente il medium che trasmette il messaggio, prima ancora di tentare di decifrarlo, ammesso che questo risulti intelligibile. Molti non sanno parlare. Non sanno leggere. Non sanno scrivere. Non sanno comprendere. E il giudizio diventa strumento di aggregazione, è facile e veloce e ti mette subito sullo stesso piano degli altri. Allora… perché non farlo? E poi credo anche che la Parola del Cristo sia stata oggetto di convenienze sociali più o meno semplicistiche: giudicare (così come da soggetto) non significa dire “st’amatriciana fa cagare” o “ma che cazz hai combinato , a messo er parmiggiano ar posto der pecorino mørtāccïtua”. Giudicare significa altro. Solo che ora sono troppo preso dalla digestione post-pasquale. Non giudicarmi male… 🙂